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30 anni dalla Conferenza di Pechino. E ora?

di Amina Damiro


La parità di genere è un obiettivo che ha attraversato decenni di lotte, rivendicazioni e riforme, trovando nel contesto internazionale momenti chiave di riflessione e impegno politico. Uno di questi, la Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne che si tenne a Pechino nel settembre 1995, riunì rappresentanti di 189 paesi e produsse una Piattaforma d’Azione che ancora oggi costituisce un riferimento, in un epoca segnata dall’ascesa di sovranismi e da nuovi scenari di conflitto. 


L’idea di organizzare conferenze globali sui diritti delle donne nasce dall’esigenza di affrontare, soprattutto su scala internazionale, le profonde disuguaglianze di genere che caratterizzavano, e tuttora caratterizzano, le società. La prima Conferenza Mondiale sulle Donne si tenne a Città del Messico nel 1975, in un periodo di mobilitazioni femministe in vaste aree del mondo e di crescente attenzione dell’ONU per le questioni delle diseguaglianze e delle discriminazioni nei confronti delle donne. Seguì poi quella di Copenaghen che nel 1980 pose maggior attenzione sui diritti economici e sociali; mentre nel 1985 l’evento si svolse a Nairobi, segnando un passaggio cruciale nel riconoscimento del ruolo delle donne negli ambiti dello sviluppo e della pace.


Fu però a Pechino che la comunità internazionale produsse il documento più ambizioso e strutturato fino a quel momento: la Dichiarazione e Piattaforma d’Azione di Pechino. Il luogo non fu scelto a caso poiché in quegli anni la Cina cercava di aprirsi al mondo e di rafforzare il proprio ruolo sulla scena internazionale, accettando di ospitare un evento che avrebbe riunito i paesi del mondo, oltre che migliaia di attiviste per i diritti delle donne (più di trentamila in un evento parallelo alla Conferenza ufficiale).


La Piattaforma d’Azione di Pechino definì dodici aree critiche di intervento, tra cui la lotta alla povertà femminile, il contrasto alla violenza di genere, la promozione dell’accesso all’istruzione e alla sanità e anche la piena partecipazione delle donne alla vita politica ed economica. Inoltre, gli Stati si impegnarono formalmente a integrare la prospettiva di genere nelle loro politiche pubbliche, adottando strategie di ‘’gender mainstreaming" che servono ad integrare la prospettiva di genere in tutte le politiche e azioni, garantendo pari opportunità e eliminando le disuguaglianze tra uomini e donne.


La Piattaforma di Pechino è tutt’ora in vita grazie alla Commission on the Status of Women (CSW), organo dell’ONU, istituito alla fine degli anni 40 del ‘900, che porta avanti la missione lanciata a Pechino nel 1995. Da allora, la Commissione si preoccupa di monitorare i progressi negli ambiti previsti dalla Piattaforma, e di spingere i governi a tradurre quegli impegni in realtà. Ogni anno, infatti, durante le sessioni che si svolgono nel mese di marzo a New York, la Commissione raccoglie dati, ascolta testimonianze e discute sugli obiettivi raggiunti e quelli ancora da raggiungere. Questo appuntamento non è solo un luogo di discussione, ma anche un momento in cui vengono approvate raccomandazioni concrete per far avanzare i diritti delle donne a livello mondiale. Un momento al quale partecipano anche molte realtà della società civile. 


Negli ultimi anni, la CSW ha promosso il collegamento fra la Piattaforma di Pechino e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), promossi dalle Nazioni Unite a partire dal 2015. In questo modo si è voluto rimarcare che la parità di genere è essenziale per lo sviluppo economico e sociale. La sessione della Commissione di quest’anno, nella sua 69° edizione, si terrà dall’ 10 al 21 marzo a New York con un’importanza particolare poiché segnerà i 30 anni dalla Conferenza di Pechino, occasione importante per riflettere su cosa sia stato realizzato dopo tre decenni, e soprattutto quali siano le nuove sfide alla realizzazione della parità e del superamento delle diseguaglianze di genere. La sessione di quest'anno si troverà ad affrontare questioni chiave che riflettono il panorama politico e sociale attuale. Secondo l’agenda ufficiale della CSW, l’edizione di quest’anno si focalizzerà sulla revisione e valutazione dell’implementazione della Dichiarazione e Piattaforma d’Azione e dei risultati della 23° sessione speciale dell’Assemblea Generale. Verrano anche analizzate le sfide attuali che impediscono il raggiungimento dell’uguaglianza di genere definendo strategie priorità future per accellerare l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile in relazione ai diritti delle donne.

Il programma provvisorio della CSW 69 prevede una serie di attività, tra cui:

- Sessioni plenarie in cui i vari Stati membri interverranno  sulle questioni relative alla parità di genere e all’empowerment femminile.

- Tavole rotonde ministeriali: scambi di esperienze e buone pratiche tra ministri su temi specifici legati all’uguaglianza di genere.

- Eventi collaterali organizzati dai governi e altre entità, questi eventi affronteranno vari aspetti dei diritti delle donne.

- Presentazione di rapporti ufficiali, tra cui quelli del Segretario Generale e di UN Women.

- Elezione del Bureau per la 70° edizione.

Alla luce di queste sfide, il lavoro della Commissione sarà cruciale per individuare strategie e raccomandazioni politiche efficaci 

Nel corso di questi decenni alcuni Paesi hanno implementato riforme significative. L’Unione Europea, ad esempio, ha promosso la parità di genere attraverso direttive e programmi di finanziamento, mentre in America Latina si sono diffuse quote di rappresentanza femminile nei Parlamenti. Ciononostante, l’attuazione degli obiettivi di Pechino è stata disomogenea e spesso ostacolata da resistenze politiche e culturali. Nella maggior parte dei Paesi, infatti, gli stereotipi di genere sono radicati nelle strutture sociali e professionali e le strutture patriarcali limitano l’accesso delle donne a posizioni di leadership, e impediscono l’adozione di riforme legislative a favore delle donne.

Inoltre, negli ultimi anni le trasformazioni politiche che hanno visto diffondersi in molti paesi posizioni autoritarie e sovraniste, spesso segnate da ideologie conservatrici, hanno rappresentato un freno ai progressi sui diritti di genere. Movimenti e governi di orientamento nazionalista promuovono una narrazione che associa le politiche di genere a un’agenda ‘’imposta’’ da supposte “èlite globali”, e si vanno opponendo in maniera crescente a misure di inclusione e parità. Per esempio, in Polonia, il governo ha tentato di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul - trattato internazionale promosso dal Consiglio d’Europa e firmato nel 2011, che mira a prevenire e combattere la violenza di genere - sostenendo che fosse contraria ai valori tradizionali. In Ungheria, invece, il governo Orbàn ha limitato finanziamenti per gli studi di genere e promuove una visione della famiglia rigidamente patriarcale. 

In Italia, si moltiplicano i dibattiti su temi come l’aborto e l’educazione sessuale e gli interventi volti a limatare la presenza di essi nei luoghi di formazione, con politiche che talvolta hanno ostacolato l’accesso ai servizi per le donne. Come riporta la La Rete GIFTS (Studi di Genere, Intersex, Femministi, Transfemministi e sulla Sessualità) in Italia, infatti, alcuni movimenti politici stanno promuovendo una visione tradizionalista dei ruoli di genere, opponendosi a iniziative come l’educazione di genere nelle scuole o leggi a tutela dei diritti LGBTQ+. Gli stessi movimenti politici influenzano il dibattito sulla legge 194 del 1978, che regola l’interruzione volontaria di gravidanza. Sebbene la legge garantisca il diritto all’aborto, negli anni sono emerse proposte di modifica che mirano a limitarne l’applicazione. Ma questo è solo un esempio.

Le donne, inoltre, sono soggette a molteplici svantaggi: oltre alle difficoltà comuni nella vita di tutti i giorni, affrontano sistematiche violenze di genere nei contesti di guerra. Lo stupro è stato usato come arma di guerra nei Balcani, in Ruanda, in Siria e, più recentemente, in Ucraina. I rapporti delle organizzazioni internazionali denunciano un aumento delle violenze sessuali nei conflitti, evidenziando il fallimento della comunità internazionale nel proteggere le donne nei teatri di guerra.


Il legame tra l’ascesa del sovranismo e la condizione delle donne nei conflitti diventa evidente quando si analizzano le politiche migratorie di alcuni governi nazionalisti. La chiusura delle frontiere e le restrizioni all’asilo hanno conseguenze drammatiche per le donne in fuga da guerre e persecuzioni. Molte di loro, in mancanza di vie legali di ingresso, finiscono nelle mani di trafficanti e sfruttatori, e vengono così esposte a violenze e abusi.

Nonostante gli obiettivi fissati a Pechino fin dal 1995 abbiano mirato a superare le condizioni di diseguaglianza attraverso il rafforzamento della protezione legale, il miglioramento delle opportunità economiche e l’incremento della presenza femminile nei processi decisionali per ridurre le sfide affrontate dalle donne, queste diventano ancora più gravi nei contesti di guerra e crisi. Per affrontare queste sfide, è essenziale che l’Agenda di Pechino venga declinata in modo specifico per le situazioni di guerra e crisi. La protezione delle donne, ma anche dei bambini e delle comunità marginali, deve diventare una priorità attraverso la creazione di meccanismi legali più efficaci per la punizione dei crimini di genere nei conflitti. È poi fondamentale garantire loro la partecipazione attiva nei negoziati di pace e nei programmi di ricostruzione, come previsto dalla Risoluzione delle Nazioni Unite 1255 del 2000, affinché possano contribuire in modo significativo alla stabilizzazione delle loro comunità. 

Parallelamente, vanno promossi programmi di assistenza umanitaria che tengano conto delle necessità specifiche delle donne, assicurando loro accesso ai servizi sanitari, alle risorse economiche e all’istruzione. La formazione e l’istruzione rappresentano elementi essenziali per l’autonomia. Infine, è necessaria una forte sensibilizzazione per contrastare la normalizzazione della violenza di genere e per rafforzare la resilienza delle comunità attraverso un cambiamento culturale che duri nel tempo. L’attuazione della Piattaforma di Pechino in ogni contesto richiede, dunque, un impegno congiunto da parte della comunità internazionale, delle organizzazioni non governative e delle autorità locali.

A trent’anni dalla Conferenza di Pechino i diritti di genere e delle donne restano un terreno di battaglia politica e sociale. Mentre alcuni progressi sono innegabili, la realtà mostra che le promesse fatte non sempre si traducono in atti concreti. Seguire da vicino la CSW 69 sarà essenziale, dunque,  per comprendere se e come la comunità internazionale intende affrontare le sfide ancora aperte e garantire che la parità di genere non resti solo un impegno scritto, ma una realtà per tutte le donne.