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Alleanze dominanti e white feminism

di Francesca Tosi

 

La misoginia, il razzismo, l'omofobia e, in generale, tutte le forme di discriminazione si configurano come dinamiche di potere diseguali, insite nella società patriarcale in cui viviamo. In questo contesto, il femminismo potrebbe rappresentare uno strumento chiave per contrastare e cambiare tali dinamiche, promuovendo la parità di genere e la giustizia sociale. Tuttavia, bisogna prendere consapevolezza del fatto che anche certe forme di femminismo tendono a riprodurre determinate gerarchie spazio-temporali. Come segnala l’autrice Rafia Zakaria, avvocata e attivista per i diritti umani, in un’intervista al Corriere della Sera, il femminismo occidentale corre spesso il rischio di applicare in maniera indiscriminata il proprio sistema di valori, dimostrando una conoscenza limitata delle esperienze femministe proprie di contesti culturali diversi. Per questo motivo c’è un alto rischio di incomprensioni, che generano inavvertitamente disuguaglianze e possono tradursi in una rete di supporto troppo fragile e superficiale. 

Risulta dunque quanto mai necessario un approccio intersezionale e transnazionale, che non solo ponga attenzione al contesto storico, geografico, culturale e sociale, ma che sveli anche quelle dinamiche di potere che Paola Bacchetta definisce alleanze dominanti. Questo tipo di alleanze può produrre e rafforzare, in maniera accidentale, l’esclusione di soggetti subalterni. Un’alleanza dominante di particolare rilievo è quella salvifica, che emerge nelle situazioni dove figure femminili influenti e potenti intraprendono azioni per aiutare altre donne “meno fortunate” del Terzo Mondo. In questa dinamica, la parte che si reputa più “evoluta” si fa portatrice di una “missione civilizzatrice”, producendo una dicotomia tra i concetti di liberazione e superiorità da una parte, e vittimizzazione e inferiorità dall’altra. È necessario, perciò, mettere in risalto quella paternalistica retorica della solidarietà che, tramite un attento uso del linguaggio, maschera una vera e propria discriminazione facendola sembrare in realtà una situazione in cui l’Occidente bianco si prende cura di una popolazione subalterna. Questo aspetto viene ripreso sempre da Zakaria, in relazione all’uso del velo: «La rivoluzione delle iraniane piace perché è contro il velo. (...) In Francia non permettono alle donne che lo desiderano di indossarlo. In generale, una donna che lo indossa in Occidente è trattata quasi sempre come una poverina oppressa. Quindi, l’autonomia delle iraniane va difesa, è sacra. L’autonomia delle francesi non bianche invece ci fa schifo, è malintesa, non sanno decidere per sé. Liberiamole».

Di conseguenza, come afferma Ellen Pence, vi è una contraddizione profonda, poiché c’è una grande somiglianza tra le strutture maschiliste che avevano escluso le donne e le strutture solidali femministe nei confronti delle donne del Terzo Mondo. È quindi essenziale comprendere come le due dinamiche siano profondamente collegate e capire che per far fronte a queste problematiche, una soluzione può essere la spinta dal basso da parte delle donne attive. Come sostiene Barbara Smith, il femminismo deve essere considerato come una teoria politica e pratica che mira a liberare tutte le donne - nella loro molteplicità di donne nere, della classe lavoratrice, povere, con disabilità, appartenenti alla comunità LGBTQ+, anziane, etc. - dai vincoli sociali e dalle situazioni di discriminazione che esse subiscono per il solo fatto di essere donne. Qualsiasi approccio che non si allinei a questa visione inclusiva non può essere considerato come femminismo, ma piuttosto una forma di “autoesaltazione femminile” che non abbraccia l’intero spettro delle esperienze e delle sfide affrontate dalle donne.

Tutto questo discorso si lega al concetto di “white feminism”, che si riferisce alla tendenza di alcune persone a ignorare l’influenza della bianchezza, e del conseguente privilegio razziale, nel definire le agende del femminismo. In questo contesto, si assume erroneamente che le questioni e le credenze proprie delle femministe bianche siano rappresentative e universali per tutto il movimento. Una white feminist, quindi, accoglie i principi dell'intersezionalità, ma allo stesso tempo non concede spazio alle femministe BIPOC [N.d.R. Black, Indigenous and People of Color], che vengono invece ignorate e cancellate. Questa esclusione comprende anche la tendenza a parlare in nome delle persone BIPOC e a definire le loro lotte a partire da una prospettiva prettamente occidentale

Un esempio significativo in tal senso è descritto da Zakaria in un articolo per il The Nation, dove spiega come la situazione delle donne afghane sia stata strumentalizzata dagli Stati Uniti a partire dall’11 settembre 2001. Zakaria illustra come gli aiuti statunitensi in Afghanistan siano stati controproducenti in quanto hanno indebolito enormemente i femminismi locali, poiché le donne afghane hanno abbandonato i loro programmi e le loro iniziative a favore di quelle statunitensi. È evidente come, in questo caso, un’azione considerata “femminista” sia stata in realtà un mezzo per perpetuare una disparità e una prevaricazione nei confronti delle donne afghane. Ciò è stato possibile grazie a un «femminismo calato dall’alto», che «non tratta con sufficienza solo le donne afghane: le nere, le latine, le asiatiche e altre donne non bianche hanno difficoltà a entrare nei circoli dove si prendono le decisioni politiche, perché le loro esperienze femministe sono considerate irrilevanti».

L’autrice Trinh T. Minh-ha si occupa di questi temi in numerose opere e mette in risalto il dilemma di come sovvertire questa situazione. Le opzioni sono principalmente due: sottostare agli standard di linguaggio degli oppressori nella speranza di essere ascoltat*, ma senza mai rovesciare lo status quo, oppure parlare col proprio linguaggio mettendo in risalto le proprie lotte, ma con il rischio di essere ignorat*. È un quesito ancora aperto, ma ciò che è certo è che il white feminism non solo esclude le voci delle altre donne, ma le invalida, aderendo quindi agli stessi standard coloniali e patriarcali che presume di smantellare.

Nonostante abbiano costituito oggetto di riflessione per molti anni, le problematiche discusse mantengono una considerevole rilevanza nel contesto contemporaneo. Si tratta di questioni che ancora oggi non hanno trovato una soluzione definitiva, in quanto non sempre è evidente e chiaro come adottare un approccio intersezionale, evitare di creare alleanze dominanti salvifiche e riuscire a essere delle persone femministe senza cadere nelle trappole del maschilismo, del razzismo e del white feminism. Sicuramente interrogarsi e mettersi in discussione rappresentano un buon punto di partenza, soprattutto per chi si trova in una posizione di privilegio, ma questo non è sufficiente. Risulta cruciale porre al centro del dibattito le persone discriminate, concedendo loro gli spazi necessari per emergere e far sentire la propria voce. 




Fonti:

Paola Bacchetta, Laura Fantone (2023). "Femminismi queer trasnazionali: Critiche post e decoloniali all’omofobia, all’islamofobia e all’omonazionalismo", Ombre Corte

Liska, Sherri (2015). "Talking Back to White Feminism: An Intersectional Review," Liberated Arts: a journal for undergraduate research: Vol. 1: Iss. 1, Article 8

Rafia Zakaria (2021). "Against White Feminism. Notes on Disruption", W. W. Norton & Company

Barbara Smith (1982). "All the Women are White, All the Blacks are Men, But Some of Us Are Brave", Feminist Press