Blog Genere al Centro

Incroci di genere come spazio di incontro post-pandemico

di Beatrice Antola 

 


Si è da poco concluso il ciclo annuale di conferenze intitolato Incroci di Genere, promosso dal Centro di Ateneo Elena Cornaro. Ogni anno l’iniziativa propone un macro-tema diverso, in grado di aprire un dibattito che abbracci le problematiche affrontate dai gruppi sociali più vulnerabili, le situazioni di crisi che si vivono individualmente e collettivamente e le potenziali soluzioni. Quest’anno il tema proposto è stata la condizione di solitudine e isolamento che l’intera società ha affrontato nel periodo pandemico, tra lockdown e restrizioni, e la conseguente necessità di ridefinire i legami affettivi e le relazioni con l’esterno nelle condizioni a dir poco straordinarie della pandemia.

 

1. L'ombra lunga del carcere: solitudini, relazioni, affetti

Il primo incontro ha affrontato l’ombra lunga del carcere, a indicare il forte senso di solitudine e abbandono sperimentato nel contesto pandemico dalle persone detenute, estesoal punto da affliggere anche le loro famiglie e l* dipendenti dei penitenziari. La riflessione, a tratti dirompente, aperta dalla prof.ssa Francesca Vianello e dal prof. Alessandro Maculan dell’Università di Padova ha sottolineato come il carcere non privi solo della libertà, ma impatti significativamente l’identità stessa delle persone e la loro prospettiva di vita, conducendo spesso a una vera e propria forma di disculturazione e a conseguenti criticità relazionali e affettive. In questo contesto, infatti, le persone sono portate a normalizzare e accettare trattamenti inconcepibili altrove, come la mancanza di cure, l’impossibilità di informarsi e seguire corsi di studio e la grave limitazione della relazione con l’altro. Per tale ragione, la battaglia sul carcere è una battaglia politica, radicata in concezioni estremamente diverse della società e della dignità umana.

Aggravate durante la pandemia, le condizioni di totale abbandono delle persone, di sovraffollamento incontrollato e di significativa riduzione degli incontri familiari in nome delle normative sanitarie hanno portato con sé un senso di alienazione che va ben oltre l’isolamento punitivo intrinseco all’esperienza del carcere.

 

2. Oltre l'isolamento: ripartire dall'università per rifondare il legame sociale

La straordinarietà della situazione pandemica ha avuto notevoli ripercussioni anche sull’università: il malessere psicologico manifestato dalla comunità studentesca in questo periodo ha preso voce attraverso iniziative e mobilitazioni, svelando un preesistente problema di sbilanciamento dei legami sociali.

La psicologa Silvia Salcuni è quindi intervenuta per spiegare come per alcune persone l’isolamento sia stata un’opportunità di crescita personale, perché già ben equipaggiate per affrontare il naturale percorso di separazione dalla famiglia e dai pari tipico della crescita; di contro, per altre si è trattato di uno strappo violento che ha generato una significativa mancanza di legami relazionali.

Il ruolo che l’università può ricoprire a questo riguardo è quello di forgiare nuovi modelli sociali, centrati principalmente sul benessere della persona e delle relazioni, anche e soprattutto attraverso un dialogo aperto tra studenti e istituzioni che Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova, ha spesso caldeggiato nei suoi interventi. Dal Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo nasce a questo scopo un progetto audiovisivo, ideato da Camilla Barbiero, Lisa Ruffin e Francesco Ferla, che prevede una serie di interviste per indagare la condizione di studentesse e studenti e riflettere insieme su alcune possibili soluzioni che valorizzino il legame sociale, la condivisione e l’università come “palestra di vita”.

 

3. Legami famigliari, solitudine e isolamento dei giovani nell'era del Covid

Ma le generazioni più giovani si sono trovate ad affrontare anche un ulteriore risvolto del periodo pandemico: la convivenza forzata in famiglia. Utilizzando le parole del prof. Luca Trappolin, l’analisi sociologica della straordinarietà è in grado di mettere in luce alcune caratteristiche dell’ordinarietà a cui, normalmente, non faremmo caso; in particolare rispetto ai gruppi più vulnerabili e ai minori. Anche nella straordinarietà, infatti, alcune strutture come i ruoli di genere non sono state alterate e, anzi, si sono in alcuni casi aggravate.

La sociologa Daniela Cherubini dell’Università Bicocca ha quindi presentato un suo studio, condotto su 5000 famiglie italiane attraverso semi-interviste a ragazze e ragazzi, con un focus sul loro “fare famiglia”. A grandi linee, si è notata una certa tensione tra l’autonomia e la dipendenza; un contrasto intergenerazionale che ha definito i genitori come supporto, ma non come guida; e nuove strategie di controllo del conflitto.

 

4. Intimo fluire della solitudine nella scrittura di Sally Rooney e nel film "Ma nuit" di Antoniette Boulat

L’isolamento forzato dalla crisi pandemica può anche fare luce su una più ampia condizione di solitudine, interiore ed esteriore. Nella letteratura e nel cinema, questo filo rosso è da sempre diffuso, come testimoniano i romanzi di Sally Rooney e la pellicola di Antoinette Boulat, Ma Nuit. La prof.ssa Maria Rizzarelli dell’Università di Catania spiega come la prima, erede di Natalia Ginzburg, abbia fatto della solitudine un tema centrale in molte sue opere, descrivendola come una condizione esistenziale superata attraverso l’azione quotidiana, la solidarietà e i legami. Se la protagonista di uno dei suoi libri, Frances, la soffre come un’enorme limitazione, le solitudini di altri due protagonisti, Marienne e Connel, sono molto diverse: curiosamente, la solitudine del secondo, più socievole per natura, si acuisce proprio nella sua relazione intima con una ragazza. Infine, la protagonista del suo romanzo pandemico, Alice, scopre il superamento di una solitudine collettiva e assoluta attraverso la scrittura.

A suo modo, anche la regista Antoinette Boulat tratta la solitudine e il suo superamento: la prof.ssa Rosamaria Salvatore racconta come, nel film Ma Nuit, lo spettatore segue ventiquattro ore nella vita di Marion, una giovane che trascorre la propria giornata a Parigi. Stretta nella condizione di sentirsi sola anche se circondata dalle amiche, Marion è incapace di concepire un futuro costellato da legami a causa della morte della sorella e dell’abbandono del padre. Marion incarna la paura di un’intera generazione e, solo passando la notte con un’altra anima vulnerabile di nome Alex, riesce a superare quest’angoscia: attraverso una crisi d’ansia che le fa sbattere la testa e la fa finire all’ospedale, la protagonista ha la possibilità di riaprire questa ferita e cicatrizzarla a dovere, tornando a concepire e perfino a desiderare il contatto umano.

 

5. Voci sull'Iran

La sofferenza della solitudine è ancora più reale e pervasiva per coloro che la subiscono in un contesto sociale, politico e culturale come prezzo della propria libertà. È questo il caso di molte donne iraniane che, fronteggiando coraggiosamente l’abuso di regime, hanno dato vita a un’ampissima protesta di rivendicazione dei propri diritti. Nel quinto e penultimo incontro, il professor Renzo Guolo dell’Università di Padova ha fornito un excursus storico, tracciando le origini dell’attuale movimento a partire dalla Rivoluzione Iraniana del 1979. Nonostante tutti i diritti acquisiti dalle donne iraniane, tra cui quello di voto e d’istruzione, il velo è rimasto un nodo saldo di ogni regime, a causa del timore che la seduzione possa generare sedizione, delegittimando quindi l’ordine di matrice islamica. Se, per alcune donne, il velo è stato un lasciapassare, secondo le parole dello stesso Khomeini per cui una donna può essere indipendente purché velata, per altre l’acquisizione della piena autonomia è diventata una questione di principio.

È concorde nel rintracciare queste radici storiche anche l’artista iraniana Maryam Amir Farshi, che parla di una tradizione di isolamento sistemico delle donne nel suo palese: attraverso l’arte, dice, lei ha trovato la possibilità di esprimere sé stessa, ma anche la sensazione di alienazione generata dal dover prendere le distanze dal suolo e dalla cultura natii per poterlo fare. Biancamaria Filippin, dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, sottolinea come la rinuncia alla propria vita privata, inclusi il matrimonio, la maternità e la famiglia al fine di essere autonome sia un fattore costante nella vita di molte intellettuali iraniane: la celeberrima poetessa Forough Farrokhzad, che ha dovuto divorziare e rinunciare a vedere il figlio per poter scrivere, ne è un esempio; prima di lei, Parvin E’tesami ha rinunciato in principio alla propria vita privata, vivendo in maniera reclusa e lontano dallo scandalo; ma anche Moniro Ravanipour, il cui secondo romanzo è dedicato proprio ad una connazionale smarrita, affascinata e allo stesso tempo disgustata dal consumismo e dalla modernità, ma incapace di gestire la maternità e le altre pressioni, dipinge una condizione comune a numerose altre donne.

L’incontro si è concluso con un intervento di Najmeh Kahdemi, una studentessa iraniana dell’Università di Padova, che ha testimoniato la condizione di isolamento a cui sono sottoposte le sue coetanee e connazionali, pur nel tentativo di tener vivi i capisaldi di “Woman Life Freedom”.

 

6. Azzurra solitudine, pensare da soli per agire insieme

Esiste tuttavia una condizione di solitudine esistenziale, connaturata all’essere umano, che può assumere infinite sfumature. Queste ultime sono state spunto di riflessione e di discussione nella cultura occidentale. Alberto Giacomelli, dell’Università di Padova, sottolinea la natura ambigua della solitudine lungo tutta la tradizione occidentale: vi è infatti una perenne tensione tra la sua connotazione elettiva di emancipazione dal sentire comune e l’impatto di un isolamento subito o, peggio, di una chiusura autoreferenziale. Questa ambivalenza, rintracciabile in pensatori quali Nietzsche, Schopenhauer, Montaigne e Heidegger, affonda le proprie radici nella tradizione romano-ellenistica, che include la scuola stoica, ma anche quella epicurea e quella cinica.

Partendo da questo principio, la professoressa Federica Negri dell’Istituto Universitario Salesiano di Venezia fa un passo ulteriore, chiedendosi cosa ciò significhi in particolare per le pensatrici. Grazie alla destrutturazione operata da Nietzsche delle categorie metafisiche del soggetto, le donne hanno trovato spazio, secondo Sarah Kofman, in una filosofia della fluidità, che ricalca la rottura tipicamente femminile di forma e ordine: quella che Nietzsche apprezza come la donna dionisiaca che, abbandonate le convenzioni borghesi, ha il coraggio di essere sé stessa.

Tuttavia, vi sono delle limitazioni materiali alla possibilità di una rivoluzione femminile, sottolineate sia da Virginia Woolf, sia da Simone Weil: quest’ultima definisce il pensiero astratto come un pensiero violento che, se non trova riscontro nella realtà, può autoassolversi a oltranza nella sua degenerazione. Inoltre, il pensiero non può essere collettivo, in quanto la dimensione pubblica, dettata dalle convenzioni sociali, è limitante per le pensatrici: come la forza di gravità, le trascina verso il basso. Vi è quindi la necessità di “una stanza tutta per sé”, ma anche delle esperienze necessarie a concretizzare il proprio pensiero nel confronto con l’altr*, tornando nella caverna di Platone per condividere le proprie acquisizioni. In sostanza, il compito della filosofa è quella di pensare da sola per agire assieme all* altr*; ma questo scopo necessita di appoggiarsi a istituzioni volte a salvaguardare lo spazio del pensiero, perché ciò che provoca la morte della persona è l’impossibilità di pensarsi ed essere trascinata dal ritmo ossessivo e alienante del lavoro.

Corale e multidisciplinare, Incroci di Genere è stato, anche quest’anno, uno spazio di riflessione pluralistica, di condivisione del proprio sapere e delle proprie esperienze, alla ricerca di una risoluzione sfaccettata e in grado di rispondere alle esigenze di tutte e tutti. Se la pandemia ha acuito numerose problematiche, soprattutto nel caso delle persone più vulnerabili, ha anche fornito la possibilità di guardare indietro a un’ordinarietà imperfetta che anche ora, al suo ritorno, richiede un occhio critico e la volontà collettiva di renderla migliore.