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L'eliminazione della violenza sessuale nei conflitti: le norme, gli ostacoli e l’impegno politico

di Beatrice Antola

 

“Addormentarsi e svegliarsi per una donna congolese che sta nell’Est è una grazia: nessuna sicurezza, nessuna giustizia. […] Nessuna donna o ragazza, neppure le bambine e le donne anziane, nessuna viene risparmiata. Il corpo femminile è usato come uno strumento per la guerra”. La testimonianza di Desanges Kabuo, sopravvissuta alla guerra civile congolese, oggi coordinatrice della sezione provinciale del Mouvement National des Survivantes en RDCongo nel Sud Kivu e assistente psicosociale della Fondazione Panzi a Minova, è a dir poco agghiacciante. Ciò che aggrava gli abusi ripetutamente subiti da Kabuo è la consapevolezza che la sua storia è quella di milioni di donne ogni anno, nelle aree più disparate del mondo.[1]

L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo documenta che, nel conflitto in Tigray, le sopravvissute alla violenza sessuale in necessità di assistenza e supporto sono aumentate da 3,5 milioni nel 2021 a 6,7 milioni nel 2023. E sono ancora estremamente allarmanti i dati registrati in Ucraina, in Afghanistan, in Libia, in Siria, in Bangladesh, in Colombia, in Sud Sudan e in Palestina. In linea con il Call to Action on Protection from Gender-based Violence in Emergencies e il Piano Nazionale Donne Pace e Sicurezza, l’AICS agisce per promuovere la partecipazione e l’emancipazione delle donne nei contesti di conflitto, sostenendo il Women’s Peace and Humanitarian Fund e coinvolgendole nel dialogo politico per la costruzione della pace e della propria integrazione socioeconomica.[2]

 

I dati

Nonostante le numerose iniziative promosse da organi nazionali e internazionali, la violenza sessuale di massa è ancora protagonista dei contesti bellici. Solo nel 2021 si sono registrati 3.293 episodi documentati, ma i numeri reali sono molto più alti: si stima infatti che, per ogni stupro denunciato all’interno di un conflitto armato, vadano considerati in media tra i 10 e i 20 casi non documentati.[3] Questo implica che, nell’ipotesi più ottimista, i casi totali si aggirino tra i 30.000 e i 65.000. Per di più, le vittime sono spesso estremamente vulnerabili, con l’UNICEF che conta oltre 16.000 bambini e bambine nelle stime totali; e le “conseguenze psicologiche, legate alla salute fisica ma che anche investono le capacità sociali, lavorative, economiche, di libertà e futuro dei sopravvissuti, […] spesso hanno ricadute sociali per generazioni”, secondo il Presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra Michele Vigne.[4]

Alla luce di questo panorama desolante, lo stesso Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres si è espresso il 19 giugno in merito alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale nei conflitti, sottolineando come “[siano] moltissimi i responsabili che non ne rispondono mai davanti alla giustizia. Troppo spesso lo stigma getta i sopravvissuti nella vergogna mentre gli autori delle violenze rimangono impuniti”.[5] Guterres ha inoltre colto l’occasione per porre l’accento sulle implicazioni del divario tecnologico e digitale, sostenendo che “l’accesso alla tecnologia può mettere in guardia contro il pericolo, può aiutare a raggiungere luoghi di accoglienza per trovare sostegno e può permettere di documentare e verificare gli abusi come primo passo verso l’attribuzione delle responsabilità. Allo stesso tempo può però anche perpetuare la violenza, nuocere ai sopravvissuti e infiammare l’odio. Dobbiamo garantire che la tecnologia appoggi i nostri sforzi per prevenire ed eliminare questi crimini, anche attraverso un maggiore accesso e perseguendo le azioni compiute online”.[6]

 

Le norme

La complessità di trattare una problematica tanto cruenta quanto delicata è evidente, e nella realtà delle cose è necessario agire su un’infinità di livelli che tutt’oggi presentano dei limiti pratici non indifferenti. Ma anche sul piano normativo, il percorso per il riconoscimento e la condanna di questo fenomeno è stato lungo e tortuoso, a partire dalle sue antichissime origini storiche: basti pensare al ratto delle Sabine, osannato come emblema della vittoria di Roma, ma anche i riferimenti omerici al rapimento e la schiavitù sessuale delle donne troiane. Lo stesso Deuteronomio postula al soldato cristiano di passare a fil di spada tutti i maschi, ma di fare delle donne, dei bambini e del bestiame la sua preda; e in età medievale, il trionfo violento sulle donne viene definitivamente codificato come misura della vittoria militare e ricompensa.[7]

Nel 1600, Ugo Grotio, fondatore della scuola del diritto naturale, per primo solleva la questione stabilendo l’assoluta necessità di proibire che i conflitti violino i diritti dei popoli e includendo tra queste violenze quella di tipo sessuale. Due secoli dopo, il General Orders n. 20 del 1847 del generale americano Winfield Scott la include tra i crimini severamente vietati ai suoi soldati, mentre in Europa bisogna attendere il 1874, quando si tiene a Bruxelles la prima Conferenza sui diritti e i doveri dei belligeranti, che dà origine a una Dichiarazione secondo la quale “l’onore e i diritti della famiglia” debbano essere rispettati e pone le basi per le successive Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907.[8]

È però nel 1946 che il diritto internazionale muove effettivamente dei passi significativi verso la codificazione del crimine di violenza sessuale nei conflitti e la sua conseguente prosecuzione: la quarta convenzione di Ginevra, infatti, vieta esplicitamente lo stupro e la prostituzione forzata in guerra. L’impegno normativo non trova però applicazione: nessun criminale dell’Asse viene processato per tali crimini, né a Norimberga né a Tokyo, nonostante le numerose documentazioni.[9] Tale silenzio è imputabile alla vastità e complessità dei crimini sui quali le neonate Corti sono chiamate a esprimersi, come anche alla scarsa sensibilità del tempo rispetto alla tutela della popolazione femminile.[10] Una magra consolazione arriva con i tribunali ad hoc costituiti per le guerre civili in Jugoslavia e in Ruanda: nel primo caso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiarò la “prigionia di massa, organizzata e sistematica e lo stupro di donne, in particolare di donne musulmane, in Bosnia e in Erzegovina un crimine internazionale da affrontarsi in via prioritaria”.[11] L’ICYT include lo stupro nel proprio Statuto come crimine contro l’umanità, qualora commesso durante un conflitto armato e diretto contro una popolazione civile, e nel 2001 diventa il primo tribunale internazionale ad adottare una sentenza di condanna qualificandolo come tale.[12] Il passo successivo viene compiuto nel 1998 dall’ICTR, il primo tribunale internazionale a dichiarare una persona colpevole di stupro in quanto reato di genocidio poiché, nel caso del Ruanda, le violenze sessuali perpetrate furono ricostruite come funzionali all’eliminazione di una intera etnia.[13]

I precedenti costituiti dalle corti ad hoc hanno posto le basi per la successiva istituzione della Corte Penale Internazionale nel 1998, che incarna la volontà politica di conferire al diritto internazionale il carattere di effettività che gli spetta, permettendo la possibilità di condanna internazionale in caso di crimini di questa portata. All’articolo 7, lo Statuto della Corte Penale Internazionale comprende lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata, o “qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità” come crimine contro l’umanità qualora sia commesso in modo diffuso o sistematico. Gli stessi sono richiamati all’articolo 8 come crimini di guerra, garantendo una doppia configurabilità in grado di ampliare la possibilità di vederli perseguiti. Inoltre, l’articolo 75, dedicato alla “Riparazione a favore delle vittime”, prevede la possibilità per la Corte di stabilire “i principi applicabili a forme di riparazione, quali la restituzione, l’indennizzo o la riabilitazione, a favore delle vittime o dei loro aventi diritto”.[14]

Anche le organizzazioni internazionali si sono recentemente premurate di prendere posizione sulla questione, che è stata riproposta nel documento finale della XXIII sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite “Women 2000-Gender Equality, Development and Peace for the Twenty-first Century”, mentre nel 2007 è stata istituita un’unità dentro le stesse Nazioni Unite (UN Action Against Sexual Violence in Conflict), il cui compito è coordinare il lavoro degli enti impegnati nella lotta contro le la violenza sessuale nei conflitti. La risoluzione n. 1820 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condanna ufficialmente l’uso dello stupro come arma di guerra, minacciando dure ripercussioni per coloro che vi ricorrono. Infine, la risoluzione n. 1889 del 2009 esorta gli Stati membri e la società civile a tenere in considerazione la protezione e la valorizzazione di donne e bambine nei contesti post-bellici, mentre la n. 1960 del 2010 incarica il Segretario Generale di elencare “le parti verosimilmente sospettate di aver commesso o di essere responsabili di casi di violenza sessuale”.[15]

 

L’impegno politico: una necessità impellente

Ma se le guerre civili di Ruanda e Jugoslavia sembrano ormai all’orizzonte della storia, numerose associazioni ravvivano quotidianamente la memoria con nuovi, terribili dati. In una sola settimana, tra il 7 e il 13 aprile scorsi, Medici senza frontiere ha ricevuto e curato quasi 700 vittime di violenza sessuale intorno a Goma, nella provincia congolese del Nord Kivu. Lo scorso marzo, la Commissione d’inchiesta internazionale indipendente ha annunciato di aver verificato e documentato numerosi crimini di guerra sotto forma di stupro e violenza sessuale commessi dalle forze militari russe nei territori ucraini occupati.[16] È quindi evidente che un avanzamento normativo, pur dando vita a una serie di enti internazionali incaricati di agire su più livelli, non è sufficiente. I momenti che necessitano di maggiore attenzione sono molti, dalla prevenzione, alla cura fisica e psicologica, ma anche all’assistenza nel reinserimento in seguito a un simile trascorso. I mezzi purtroppo sono spesso scarsi all’interno di contesti sociali, politici ed economici che versano in stati di carestia, povertà e lacune infrastrutturali, aggravati da situazioni di conflitto. La violenza sessuale nei conflitti è la vetta di un iceberg che rasenta i fondali di una violenza sistemica e persistente nei confronti delle persone più vulnerabili: l’unica via per una reale prevenzione richiede un impegno continuo e la consapevolezza che la discriminazione si cela, innanzitutto, negli aspetti più subdoli. Scalfire la superficie è un inizio: la vera sfida è esaminarne ogni strato.

 



[1] Geraci C., Stupri nei conflitti, le donne come territorio nemico da assediare, Voci Globali, 2023

[2] Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, 19 giugno 2023 – Donne e conflitti armati: AICS sostiene la leadership delle donne e la lotta alla violenza sessuale nei conflitti, 2022

[3] Adnkronos, Anvcg: "Oggi Giornata eliminazione violenza sessuale nei conflitti armati", 2023

[4] Ibid

[5] Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite, Messaggio del Segretario Generale sulla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale nei conflitti (19 Giugno), 2023

[6] Ibid.

[7] Marrazzo A., Stupro di guerra: storia dell’uso della violenza sessuale come arma nei conflitti, p. 2 Osservatorio Diritti, 2023

[8] Ibid.

[9] Ivi, p. 4

[10] Marinello M., Lo stupro come arma di guerra: da eventualità “necessaria” a crimine internazionale, p. 7, L’Osservatorio, 2016

[11] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Risoluzione n. 798, 18 dicembre 1992

[12] ICYT, Sentenza del 22 febbraio 2001

[13] Op. cit. Lo stupro come arma di guerra: da eventualità “necessaria” a crimine internazionale, p. 9

[14] Conferenza dei plenipotenziari, Statuto di Roma, 17 luglio 1998

[15] Op. cit. Lo stupro come arma di guerra: da eventualità “necessaria” a crimine internazionale, p. 11-12

[16] Op. cit. Stupri nei conflitti, le donne come territorio nemico da assediare