Il futuro degli studi di genere negli Stati Uniti: tra tagli, tensioni e resistenze
28 settembre 2025
di C. V. (studentessa di Human Rights and Multi-level Governance)
Nel gennaio 2025, l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha messo in atto una nuova politica contro quella che definisce “ideologia woke”, attaccando in modo diretto il mondo accademico, la letteratura, il mondo dello spettacolo, le istituzioni artistiche, i musei, e i curricula scolastici.
In primis, sono stati tagliati i fondi ai programmi federali di diversity, equity e inclusion (DEI), cioè a quelle politiche e iniziative messe in atto per ridurre le discriminazioni e garantire una cultura inclusiva e rispettosa delle diversità, mentre è stato imposto l’uso esclusivo del termine “sesso biologico” nei documenti pubblici tramite due ordini esecutivi. Secondo il New York Times, il governo ha anche tagliato miliardi di dollari in fondi alla ricerca e ha minacciato di limitare i diritti di studenti e studentesse internazionali. Sono inoltre state avviate indagini contro numerose università di fama internazionale, accusate di indottrinare e promuovere ideologie radicali, quali Harvard, Columbia, Princeton, Penn State, Northwestern, John Hopkins, Cornell, CUNY, Georgetown e Berkeley.
Va ricordato che, nel mese di luglio di quest’anno, gli ultimi tre atenei sono stati accusati da un gruppo di parlamentari di non aver protetto studenti e studentesse dall’antisemitismo durante le proteste del 2024. Successivamente, nel mese di agosto, Donald Trump ha minacciato di bloccare 584 milioni di fondi federali all’Università della California - Los Angeles, utilizzando il pretesto di una causa per discriminazione iniziata da alcuni studenti di origine ebraica durante le proteste della primavera 2024 per la Palestina.
Secondo la CNN, l’accordo preliminare per evitare la causa prevede che l’Università della California paghi oltre 1 miliardo di dollari al governo e adotti numerose misure correttive, tra le quali interrompere borse di studio per etnie marginalizzate, vietare manifestazioni non previamente autorizzate e cessare il supporto al processo di affermazione di genere all’interno della clinica universitaria. Un accordo che garantirebbe di riprendere accesso a fondi e contratti federali, ma che secondo il Presidente dell’Università della California avrebbe effetti devastanti sul sistema accademico californiano, che è la più grande rete di università pubbliche statunitensi. È importante notare come le accuse dell’amministrazione federale si concentrino sul gender, soprattutto riducendolo alle istanze trans, e sulle proteste per la Palestina, riducendo ogni critica alle politiche miltari di Israele all’antisemitismo. Questi due nodi sono diventati cruciali nel progetto di minare il ruolo delle università, azzerandone il ruolo democratico e critico delle egemonie.
È in questo contesto che si colloca la recente testimonianza - raccolta in questo articolo - di una docente e ricercatrice attiva in una delle sedi californiane colpite dalle politiche federali. Sociologa di formazione, con una lunga esperienza in studi di genere, migrazione e partecipazione politica, la ricercatrice sottolinea come le università americane stiano affrontando un periodo di forti tensioni. Da un lato la sfida costituita dai tagli ai fondi per progetti considerati “non neutrali”, specialmente negli ambiti degli studi di genere, degli studi mediorientali e delle cosiddette discipline critiche (ma anche le scienze mediche non sono esenti); dall’altro, la volontà di proteggere e sostenere la libertà di espressione di docenti e studenti.
La ricercatrice ci racconta che negli Stati Uniti gli studi di genere si sono sviluppati all’interno delle università progressiste e con un’impronta critica e intersezionale a partire dagli anni Sessanta e Settanta, in dialogo con altre discipline come i Black Studies, Ethnic Studies e Native American Studies. Già con il Free Speech Movement, nato a Berkeley nel 1964-1965, si è affermata l’idea che le istanze anti-militariste degli studenti fossero interconnesse alle lotte delle comunità nere, asiatiche e latine e che tutte le rivendicazioni di uguaglianza e parità andassero collegate. Come sottolinea l’intervistata, “questa intersezionalità non è stata inventata in ambito accademico, ma era già presente nei gruppi politici dal basso”. I soggetti e movimenti politici degli anni Sessanta hanno cambiato radicalmente la politica americana, e le università hanno ricoperto un ruolo importante, poiché “la capacità dell’ambito accademico di esprimere le volontà politiche locali è stata fondamentale come meccanismo di emancipazione per le comunità, come motore di amplificazione e legittimazione delle idee di uguaglianza e inclusione”.
Questo rapporto tra accademia e movimenti sociali intersezionali ha contribuito a cambiare la società americana, nelle politiche locali e statali di inclusione di persone omosessuali e appartenenti a minoranze etniche; e in generale, ha contribuito a ridurre l’élitismo nel sistema educativo, nei media, nella politica e persino nelle istituzioni militari. Come per il femminismo, questi successi delle politiche di inclusione hanno portato ad un contraccolpo populista e maschilista, che è cresciuto fortemente dal 2008, cioè dalle elezioni di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, fino a diventare una strategia fondante per l’amministrazione Trump. Il suo secondo mandato, infatti, raccoglie l’eredità del backlash sviluppatosi negli ultimi vent’anni e lo porta alle sue estreme conseguenze.
Dal 2025, il tentativo di delegittimare le università, il sistema giudiziario e i media ha preso la forma di un attacco alle politiche di inclusione e differenza, ed ora è diventato un vero e proprio ricatto finanziario: le università possono continuare a ricevere fondi per la ricerca scientifica solo se smantellano e censurano le politiche di inclusione e seguono nuovi criteri e requisiti di presunta “neutralità”.
La retorica delle destre si riflette nel governo Trump attraverso alcuni temi ricorrenti: le interpretazioni fuorvianti del “gender”, la negazione del cambiamento climatico e un costante contrasto alle proteste nei campus universitari contro Israele con il concetto di antisemitismo. Questi temi sono diventati le maggiori armi retoriche per portare le università ad una crisi finanziaria e istituzionale, iniziata prendendo di mira tutti quei dipartimenti che si occupano di pari opportunità, disabilità, eguaglianza dei gruppi minoritari e politica. Ma di fatto l’attacco è ormai andato molto oltre: "Adesso - sostiene la ricercatrice - l’attacco non è solo più concentrato sugli studi sociali e critici, da sempre visti come covi di cattivi maestri di sinistra: ora è attacco aperto a tutti i campi di ricerca - dall’immunologia all’ingegneria - che dovranno solo occuparsi di problemi astratti, non delle persone che usufruiscono delle applicazioni di tali ricerche. È utile notare che le istituzioni della salute pubblica statunitense riflettono ampie discriminazioni di reddito e razziali: dall’accesso differenziato ai vaccini, all’alta mortalità infantile dei bambini afroamericani, agli effetti del diabete sulla popolazione povera e indigena. L'obiettivo è, invece, la neutralità: qualunque campo scientifico deve essere ”neutrale”, slegato dai fattori socio-economici che lo sostengono”.
Gli interventi del governo Trump, infatti, hanno messo in discussione la conoscenza scientifica come base per le politiche pubbliche, specialmente per quanto riguarda il cambiamento climatico e la salute pubblica, limitando la ricerca e in alcuni casi portando ad un’autocensura adottata cautamente, fin dai primi mesi dell’amministrazione in carica.
“Se questa amministrazione vuole implementare un principio della neutralità della scienza, allora non stupisce che coloro che si occupano di teoria critica, economia politica, studi ecologici e medio orientali siano i più passibili di rientrare nella categoria dei ‘non-neutrali’.” Insomma, il progetto di neutralità si fa strumento di censura e conduce alla cancellazione di progetti, per paura di vaste perdite monetarie da parte delle amministrazioni universitarie.
Questo ha avuto ricadute molto pesanti anche sugli studi di genere, ambito in cui la ricerca è sempre più a rischio a causa di una delegittimazione politica unita a una scarsa volontà da parte di rettori e rettrici di difendere queste aree di ricerca.
Già da una decina di anni, le forze di destra hanno orchestrato attacchi verso singol* espert*, come accaduto a Judith Butler, filosof* e professor* di spicco nel campo degli studi di genere dell’Università della California. Nel 2017 Butler, nel corso di una conferenza sul tema della democrazia in Brasile, subì attacchi da parte di gruppi ultraconservatori e religiosi. Tali gruppi hanno accusato Butler di stregoneria, di promuovere l’omosessualità e di minacciare i valori tradizionali della famiglia. Altre forti accuse a Butler si sono basate sulla sua identità ebraica e sulle sue posizioni critiche nei confronti dello stato di Israele. Questo attacco riflette le strategie neoconservatrici, basate sull’uso di fobie radicate, contro persone ebree e LGBTQIA+, che la figura di Butler evoca intersezionalmente.
Secondo la ricercatrice che abbiamo intervistato, è chiaro che di fronte ad attacchi volti a limitare il sapere accademico, una risposta forte deve provenire dalle università stesse. La docente ricorda come nel giugno 2025 l’Università della California abbia organizzato un grande congresso focalizzato sulla libertà accademica e sull’autonomia nei contenuti insegnati, il Systemwide Academic Freedom Congress, per discutere di come mantenere l’università uno spazio pubblico di libera espressione e per comprendere come affrontare i tagli all’università da parte del governo federale.
Alcune università, racconta l’intervistata, “hanno mantenuto una posizione di resistenza al governo federale durante l’inchiesta parlamentare sull’antisemitismo nei campus, legato alle proteste del 2024. La mia speranza è che l’università decida, anche paradossalmente, di rinunciare ad alcuni fondi federali, ma di mantenere la propria integrità alla luce del proprio mandato, quello di essere un luogo pubblico, democratico, aperto alla libera espressione delle opinioni di tutt*”.
Purtroppo, nel settembre 2025, l’amministrazione dell’Università di California di Berkeley ha fornito agli inquirenti parlamentari i nomi di 160 docenti, ricercator* e studenti ritenuti coinvolti in qualche forma non ben specificata di antisemitismo. Tra i nomi, ovviamente c’è quello di Judith Butler, che ha risposto con una secca accusa all’ufficio legale, per non aver informato l* docenti che sarebbero stati inclus* nella lista degli ‘untori’, né aver fornito dettagli sui criteri usati per stilare la lista.
Molti ex-studenti hanno espresso delusione per questo cedimento dell’Università della California. La ricercatrice intervistata definisce questo slittamento “codardo e disdicevole”: “fornire nomi di colpevoli a priori, appare un modo per dimostrare all’amministrazione federale di essere collaborativi ed evitare un blocco dei finanziamenti simile a quello di UCLA”.
Rimettere al centro gli studi di genere e ridare loro legittimità nella società è una grande sfida in un contesto così ostile, ma oggi ancor più necessaria che mai. La ricercatrice sottolinea come sia essenziale ribadire l’utilità di questi studi, ripartendo dalle soluzioni positive che ognuno di noi può applicare nel quotidiano.
“Pensiamo anche solo ai bagni neutrali al genere e accessibili alle persone con disabilità, che abbiano le attrezzature necessarie alle famiglie per cambiare i pannolini e dove tutt* possano entrare senza imbarazzo. Un altro esempio noto è l’introduzione dei congedi pagati non solo alle madri dei neonati ma a entrambi i genitori. Sembrano cose banali, però tutto questo è nato da studi e ricerche di genere; quindi, bisogna ripartire dalle cose che le persone comuni comprendono. Dimostrare che questo tipo di studi non riflette solo qualcosa che riguarda una minoranza di una minoranza, ma - al contrario - ha portato al miglioramento della vita per tutt* nella quotidianità”.
La studiosa ricorda anche come presso l’Università della California, proprio a questo scopo, fosse stato proposto un mini-corso trasversale centrato sui saperi di genere, gratuito ma obbligatorio per tutte le nuove matricole: "Questa fu un'ottima idea. È stato fatto un progetto pilota, che non è poi diventato un requisito per tutti. Invece poteva essere molto utile soprattutto per combattere le molestie sessuali alle quali sono soggette molte studentesse del primo anno di università, o le dinamiche della classe come gruppo, che portano spesso gli studenti maschi a dominare la conversazione, interrompendo o ignorando gli interventi delle ragazze”. Tale corso si inseriva nel tentativo più ampio di rendere i saperi di genere non solo appannaggio di una cerchia ristretta interessata, ma di elevare il livello di base di rispetto tra i generi nell’intera comunità universitaria.
“Se non riusciamo a comunicare a studenti e studentesse la rilevanza delle questioni di genere nella loro vita e carriera, allora rischiamo di perderci in una sotto-disciplina specialistica, separata dalle altre dove ci si parla solo tra espert*. Per me è sempre stato molto importante poter avere momenti di dialogo trasversali”, soprattutto dal 2016, quando le università e gli studi di genere sono stati apertamente presi di mira dai politici populisti: da Victor Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, alla prima campagna di Trump”.
Dall’altro lato, la studiosa evidenzia una recente forte polarizzazione e tensione tra studenti con background accademici e familiari diversi: “Negli ultimi dieci anni ho visto emergere molte tensioni durante le lezioni, studenti che portano dei punti di vista molto polarizzati, con toni antagonisti e crudi più di quanto non avvenisse prima. Discutere di questi temi in classe diventa dunque sempre più difficile”.
Un ulteriore strumento per ribadire la centralità degli studi di genere e difendere la libertà d’espressione e di insegnamento è la cooperazione transnazionale. L’esperta ricorda come, proprio in seguito all’attacco sopracitato nei confronti di Judith Butler, "si creò una rete molto forte di supporto internazionale”, una solidarietà tangibile che è poi diventata una risorsa preziosa per studios* statunitensi: “Certo c’è stata un po’ di sorpresa nel constatare che ora la vulnerabilità degli Stati Uniti abbia riportato gli studi critici e di genere americani al centro di questa rete di solidarietà come vittime. [...] Prima la solidarietà era considerata più “nostra” verso chi era più fortemente attaccato in Est Europa, in America Latina o in Africa. È strano rendersi conto che ora agli Stati Uniti sia necessaria quella stessa solidarietà. Speriamo veramente che scatti una mobilitazione transnazionale a fronte dei cedimenti interni e dell’autocensura delle istituzioni americane.”
D’altro canto, sottolinea la studiosa, la solidarietà internazionale nei confronti di ricercator* statunitensi, che tenderanno a spostarsi presso centri di ricerca dell’Unione Europea, della Cina, o altrove, in nome di maggiori libertà o risorse per la ricerca, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Se da un lato essa rappresenta un’opportunità per singoli studios*, dall’altro “dal punto di vista della tradizione accademica radicale e del suo ruolo nella democrazia americana, questo può rappresentare una grave danno sociale e morale. Non solo si perderanno scienziat* e ricercator* di grande talento che andranno altrove, ma vincerà anche un certo nazionalismo paranoico [...] e con esso il rischio di congelamento di tutti i dibattiti politici, in maniera simile all’epoca del Maccartismo."
Allo stesso modo, l’incontro tra saperi diversi è sempre stato un elemento fondante degli studi di genere: “Non è mai stato un discorso solo volto a difendere il genere isolandosi dalle altre discipline minoritarie. Gli studi femministi e di genere sono sempre stati intersezionali e interdisciplinari”. In questa prospettiva, l’apertura internazionale rappresenta un’occasione preziosa di dialogo per migliorare le pratiche esistenti, evitando di chiudersi nella propria nicchia.
“Se parliamo di femminismi transnazionali, bisogna abbandonare l’idea che come studios* (noi euro-american*) siamo centrali; ma ascoltare le coniugazioni di maschile e femminile, trans, o LGBQIA+ che vengono dalle persone migranti, ascoltare altri modi di percepire i problemi e elaborare risposte. Mettersi in ascolto. Non ha senso continuare ad applicare sempre le stesse idee ed etichette preconcette, nate delle esperienze occidentali e che magari non rispondono ai bisogni della donna migrante o della persona rifugiata che arriva in Europa o in America con un percorso completamente diverso”.
Proprio per questo, portare al centro gli studi di genere in modo intersezionale e transnazionale può essere il modo più efficace per resistere alle pressioni verso la neutralizzazione delle scienze, rendendo l’utilità di questi studi chiara e condivisa all’interno dell’intera comunità scientifica, e della popolazione a livello globale.
Anche con questo obiettivo è nato GenVox - un progetto del Centro Elena Cornaro presso l’Università di Padova - che continuerà, a partire da questa intervista, a creare un dialogo con espert* di studi di genere, creando una rete di supporto e di condivisione di buone pratiche.