Linguaggio e media: la narrazione dei femminicidi
Lo scorso 12 luglio il Corriere del Veneto ha pubblicato una lettera aperta firmata da Mariangela Zanni, Presidente del Centro Veneto Progetti Donna e Consigliera Nazionale D.i.re, Annalisa Oboe, Direttrice del Centro di Ateneo Elena Cornaro, Antonella Viola, docente di Patologia Generale presso l'Università di Padova, Paola Degani, docente di Women’s Human Rights presso l'Università di Padova, Michela Marzano, docente di Filosofia morale politica presso l'Università di Parigi René Descartes, Claudia Pividori, docente di Violenza contro le donne e diritti umani presso l'Università di Padova, e Marco Sancandi, orfano di femminicidio.
Nella lettera si denunciano le modalità con cui la stampa narra i femminicidi e la violenza di genere, chiedendo un cambio di rotta attraverso un uso più consapevole del linguaggio e delle immagini. Eccone il testo completo:
Gentile direttore,
c’è un grave problema nel mondo della comunicazione, l’incapacità e la non conoscenza delle parole giuste per raccontare femminicidi e violenza di genere. C’è mancanza di consapevolezza nei testi, nei titoli, nella scelta delle foto: denunciamo una narrazione tossica, che alimenta e giustifica la cultura della violenza. Vorremmo che la narrazione dei femminicidi e della violenza di genere fosse affidata a giornalisti e giornaliste che hanno studiato il fenomeno e hanno gli strumenti per individuare il linguaggio adatto alla narrazione. Stessa cosa per gli editoriali su questi temi.
Non vogliamo più leggere titoli e narrazioni romantiche e umanizzanti che creano empatia verso un femminicida, come per esempio, «Chi è Andrea Favero, conservava le foto strappate da Giada durante i litigi», o «diceva che mi avrebbe tolto il bambino, voleva lasciarmi», «Uccide la moglie malata. È stato un gesto d’impeto», «Uccisa perché aveva l’Alzheimer e il marito era provato».
Non vogliamo più vedere foto della donna ammazzata abbracciata a chi l’ha uccisa. Ennesimo spregio alla memoria. Uccisa e in più condannata a vita a sorridere accanto a chi le ha tolto la vita.
Non vogliamo più che figli e figlie delle donne ammazzate soffrano nel leggere titoli e racconti colpevolizzanti nei confronti della madre, dove si trova sempre una motivazione per la violenza da parte dell’uomo. Perché niente può giustificare un femminicidio, o una violenza di qualsiasi tipo.
Eppure, per gran parte della stampa italiana, la libertà delle donne sembra essere un problema. Talmente grande da dovere sempre raccontare «la causa scatenante» degli episodi di violenza contro le donne o «il movente» di un femminicidio. Secondo la stampa, gli uomini ammazzano le donne perché «le amavano troppo», «non riuscivano a sopportare la loro decisione di lasciare la relazione», «non accettavano la separazione». Gli uomini picchiano le donne «perché li minacciano di portare via i bambini», «perché non si comportano da brave madri». Altri uomini ammazzano «per pietà», quando arriva il loro momento di accudire la moglie malata o anziana, «sono distrutti e pongono fine alle sofferenze di queste donne». «Uomini che soffrono» e quindi secondo la stampa «avrebbero un motivo per uccidere». Motivi e giustificazioni non accettabili, non esiste «motivo» o «giustificazione» per violenza e femminicidi.
Ci domandiamo dunque come mai la stampa offra sempre continue giustificazioni all’uomo che ammazza, picchia, agisce violenza di qualsiasi tipo. C’è sempre «il motivo» che diventa nei testi e nei titoli, di fatto, la giustificazione della violenza. Che sia una scelta consapevole o invece impreparazione sul tema, il risultato non cambia. Narrazioni tossiche e sbagliate che si ripetono, un femminicidio dopo l’altro, alimentano la cultura della violenza, umanizzano l’assassino e lo giustificano, colpevolizzando le donne uccise. La stampa così è colpevole di nutrire il contesto culturale in cui maturano i femminicidi, invece di combatterlo. La libertà femminile è un fenomeno che interessa i media circa ogni 4 giorni, tanta è la frequenza dei femminicidi in Italia, più volte al giorno invece se consideriamo le notizie che riguardano la violenza. Non è sbagliato, secondo la stampa italiana, indugiare in particolari superflui o dannosi per chi legge, la dinamica dei delitti viene sempre rappresentata nei dettagli, vengono intervistati i vicini di casa o i genitori del colpevole, lasciando le loro parole senza alcun contradditorio. E lo abbiamo visto con la pubblicazione dei verbali della confessione del femminicida di Giulia Cecchettin: «La confessione di Turetta, tutte le violenze precedenti su Giulia Cecchettin», «All’ultimo appuntamento si è presentato con due zaini: in uno aveva i peluche da regalarle, nell’altro coltelli per ucciderla», ecc…
C’è un problema evidente di giornalisti, giornaliste, direttori, direttrici di giornali e tivù: la mancanza di consapevolezza di un fenomeno endemico, che riguarda una donna su tre, che è la prima causa di morte violenta di donne e ragazze nel mondo e che è una gravissima violazione dei diritti umani. Vorremmo una stampa che sappia leggere il fenomeno della violenza maschile sulle donne e il femminicidio, che con il potente strumento del linguaggio, aiuti a combattere la cultura della violenza e sia al fianco delle donne quando rivendicano diritti, sicurezza, libertà e giustizia. Violenza e femminicidi sono atti di prevaricazione, dominio e possesso da parte degli uomini sulle donne. Sono una grave violazione dei diritti umani, oltre che un problema di giustizia sociale e si innestano in un contesto sociale e culturale che affonda le radici in modelli patriarcali, dove lo squilibrio di potere all’interno delle relazioni e nello spazio pubblico incide sul benessere, la libertà e la vita delle donne e delle ragazze.
di Mariangela Zanni, Annalisa Oboe, Antonella Viola, Paola Degani, Michela Marzano, Claudia Pividori, Marco Sancandi